di: Rita Ricciardi | 5 Marzo 2024
Considerando tutti questi anni di lavoro in Africa, cosa sarebbe la cosa più logica da fare per dare concretezza al Piano Mattei? La cosa più logica sarebbe, prima di tutto, cambiare il modo di operare in Africa perché negli anni abbiamo visto ripetersi due approcci che non hanno dato i risultati sperati.
Il primo approccio procede dall’alto verso il basso e potrei sintetizzarlo così: noi sappiamo di cosa avete bisogno, voi recepite quello che noi vi diamo perché noi ne sappiamo più di voi.
Poi si è passati da questo approccio molto “colonialista” a un approccio – partito dai Paesi anglosassoni – che era un po’ meno arrogante e prevedeva questa logica: voi sapete meglio di noi quello di cui avete bisogno quindi ditecelo. Un approccio, come si dice nel gergo dei cooperanti, bottom up.
Ma nel primo come nel secondo caso rimane sempre uno spazio, una distanza, che non consente una vera e propria sinergia. In altre parole non c’è un vero e proprio approccio lineare e paritetico, come dovrebbe invece esserci tra partner.
Quest’ultimo invece è quello che dovrebbe prendere forma: guardare alle opportunità dei Paesi del cosiddetto Sud del mondo come si guarda alle opportunità di altri Paesi, , lasciando adito a reciprocità e relazioni paritetiche.
Se veramente il Piano Mattei fosse uno strumento per supportare gli investimenti degli italiani verso questi Paesi e quindi creare partnership, questo sarebbe un primo passo nella giusta direzione.
Quali sono le criticità? Per concretizzare il Piano serve un supporto finanziario in grado di spingere questo tipo di relazione, che si tratti di M&A, acquisizioni di altro tipo, equity. Con tale supporto, secondo me il Piano Mattei potrebbe cominciare a essere interessante. E sotto questo profilo esistono degli esempi a cui guardare, come quanto fatto per esempio in Kenya e altri Paesi africani dai Paesi Bassi.
Allo stesso tempo, l’Africa di oggi non è più quella di venti o anche dieci anni fa: c’è un livello di imprenditorialità che si è evoluto drasticamente e che ha creato un terreno molto più fertile per guardare a possibilità di joint venture. Già altri Paesi europei stanno guardando con attenzione la nuova realtà africana, ci sono fondi internazionali che investono in Africa. L’Italia dovrebbe quindi esplorare i fondi esistenti per fare acquisizioni o investimenti in equity e, soprattutto, deve uscire da vecchi cliché, da una mentalità puramente commerciale.
I vecchi approcci non possono più funzionare. Non è più possibile andare in Africa avendo il macchinario e pretendendo di essere osannato perché vendo il mio macchinario, perché oramai la tecnologia si riesce a trovare e non siamo solo noi ad averla.
Quello che voglio dire è che è il momento di mettersi allo stesso tavolo, guardare alle opportunità e insieme decidere come portarle avanti.
Un’altra criticità da superare è l’analisi dei rischi e i tassi di interesse, che sono altamente volatili. Queste sono barriere oggettive con cui le imprese italiane si devono confrontare perché, per esempio, vanno a incidere sulle acquisizioni. Diventare più pro risk e meno risk-adverse verso i Paesi africani è una questione da affrontare e gestire. Oggi mostriamo una chiusura davvero notevole, lontana dalla realtà e dalle posizioni di altri Paesi europei.
Cosa serve dunque per concretizzare il Piano Mattei e passare dalle parole ai fatti? Serve questo nuovo approccio e serve che avvenga sia a livello istituzionale sia a livello di impresa. Pensare di essere più bravi degli altri perché il Made in Italy è una garanzia di qualità è certo un punto di partenza importante ma non è la chiave di volta, proprio perché il livello tecnologico delle produzioni si è alzato anche oltre l’Europa. Adesso è il momento di ragionare di partnership paritarie.
Questo cambio di passo deve essere esteso anche alla Cooperazione per azioni di supporto destinate alle comunità imprenditoriali africane, per fare formazione, per coordinare azioni che siano di impatto e abbiano ricadute ampie e che tengono conto delle grandi differenze tra i vari Paesi, con alcuni provvisti di un tessuto sociale molto più pronto a sviluppare collaborazioni strutturate e pensate per creare sviluppo, posti di lavoro, benessere.