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L’Europa non può imporre le sue regole, e forse lo ha capito

di: Rita Ricciardi | 11 Aprile 2025

“Africa amid Global Shifts: Balancing Partnership” è il titolo di una interessante tavola rotonda alla quale ho partecipato a metà gennaio ad Abu Dhabi. Nel bel mezzo di cambiamenti internazionali e di un riassetto geopolitico globale, il cui esito finale al momento possiamo solo immaginare, nella capitale emiratina si è discusso di quale sia la posizione dell’Africa e di quale possa essere il suo ruolo da qui a pochi anni.

La tavola rotonda era organizzata dallo European Council on Foreign Relations e dall’Anwar Gargash Diplomatic Academy nell’ambito dell’Abu Dhabi Sustainability Week, l’evento emiratino dedicato alle sfide ambientali, e in effetti si è parlato molto di transizione energetica. Soprattutto però – fatto da sottolineare – ho intravisto i segnali di comprensione anche da parte europea di quelle che sono le istanze portate avanti in blocco dall’Africa.

Parto dal presupposto che non si può pensare di imporre una transizione energetica che sia esclusivo frutto delle esigenze di una parte del mondo, quella più fortunata, a discapito di chi sta lavorando proprio adesso sul proprio sviluppo. A scanso di equivoci, ritengo ovvio e legittimo impostare politiche di sviluppo che siano progressivamente più rispettose dell’ambiente in cui viviamo, perché in ultima istanza queste politiche andranno a giovamento di intere popolazioni. Ciò su cui voglio però attirare l’attenzione sono le modalità e i tempi della transizione; questa deve necessariamente essere condivisa per poter avere successo.

Nel corso della tavola rotonda, che riuniva molti partecipanti di livello istituzionale e diplomatico, si è concordato sulla necessità di dare una spinta in più al settore energetico continentale, perché promuovendo l’energia si promuove ovviamente anche l’industrializzazione. Su questo fronte, noi di Bergs&More siamo stati chiamati in causa su due aspetti particolari: partenariati tra pubblico e privato (Ppp) e zone economiche speciali.

Nel primo caso, è sempre più evidente come le grandi opere infrastrutturali di cui il continente ha bisogno, viaggino per la loro sostenibilità finanziaria lungo i binari di partnership fra gli Stati e le imprese. Di questo bisogna avere consapevolezza, come bisogna avere consapevolezza del fatto che non si tratta di una tendenza temporanea o di una moda, ma di una tendenza strutturale. Si sta facendo e si farà sempre di più riferimento a questo tipo di accordi, anche per sfuggire ai meccanismi restrittivi delle grandi istituzioni finanziarie.

Le zone economiche speciali sono invece un potenziale acceleratore per la crescita del settore energetico semplicemente perché sono energivore e sono essenziali per l’industrializzazione. E qui arriviamo alla questione vera.

L’Occidente, l’Europa in particolare, può obbligare chi è sulla strada dello sviluppo a fare improvvisamente a meno di ricche risorse come gli idrocarburi o altre materie prime? La mia opinione è che si debba trovare un middle ground, che è la strada auspicata in coro dai leader africani.

L’Africa ha tante possibilità da un punto di vista di risorse e materie prime, l’Italia e l’Europa hanno capacità tecnologiche: è dall’incrocio di questi due fattori che deve costruirsi una porta di accesso a questo terreno di mezzo.

L’Europa finora ha varato politiche come la Deforestation Act (che è stata ritardata di un anno) che rischiano di ritorcersi contro i suoi promotori, senza arrivare alla soluzione da tutti auspicata di un mondo più pulito, equo e sostenibile. Il rischio è che il continente giri a terzi – e a prezzi imposti da terzi – quelle materie prime che l’Europa non prenderà e di cui pure avrebbe bisogno.

In altre parole, l’Europa sta imponendo misure ma non sta proponendo soluzioni né aiuto sul lato della finanza. Sta pensando a regole che nel lungo periodo andrebbero a beneficio delle popolazioni locali, ma nel breve e medio periodo rischiano di bloccare la crescita di intere regioni. Io non sono in disaccordo con le regole di sostenibilità, quello su cui non concordo è la strada abbozzata finora per arrivare al risultato auspicato. I prossimi mesi diranno se questa sensazione che si stia sviluppando un approccio differente sia corretta o se si sia trattato soltanto di una ventata passeggera; la forte speranza è che si arrivi effettivamente a esplorare strade nuove di collaborazione con l’Africa, che tengano conto delle esigenze dell’Africa.

 

Questo corsivo è apparso sul numero di febbraio 2025 di Africa e Affari, disponibile per l’acquisto qui in formato cartaceo e qui in formato digitale.

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