di: Andrea Spinelli Barrile | 4 Luglio 2024
Da #GenZ e #StopFinancialBill a #RutoMustGo. Nonostante tutto, nonostante tutti. Dopo le violenze e le manifestazioni della scorsa settimana, con 39 morti e almeno 300 feriti secondo la Commissione indipendente per i diritti umani del Kenya (Knchr), organo governativo indipendente, la tensione di questi giorni a Nairobi si fende nuovamente con il machete: la polizia in antisommossa picchetta le zone sensibili, le forze speciali pattugliano tutto il Central business district (il centro di Nairobi, il quartiere degli affari), i militari nelle caserme preparano i mezzi e le persone cominciano a sciamare verso le strade del centro. Sono state annunciate nuove manifestazioni, nonostante il presidente William Ruto la scorsa settimana abbia ritirato il disegno di legge, si sia scusato per le violenze contro i manifestanti dicendo che era loro diritto scendere in piazza e protestare ed abbia accusato i servizi di sicurezza, nemmeno troppo velatamente, di aver gestito male l’enorme potere, e la grande responsabilità che ne consegue, di cui sono depositari.
La presidente della Knchr Roseline Adede, in una conferenza stampa, ha detto che “la Commissione continua a condannare nei termini più forti possibili la violenza ingiustificata e la forza inflitta ai manifestanti, al personale medico, agli avvocati, ai giornalisti e agli spazi sicuri come le chiese, i centri di emergenza medica e le ambulanze”. La Knchr ha diffuso i dati puntuali delle vittime, aggregati città per città: secondo l’organismo di vigilanza sui diritti umani, che è finanziato dallo Stato keniota ma è di fatto indipendente, il bilancio delle vittime per regione è il seguente ed è così distribuito: Nairobi (17), Nakuru (3), Laikipia (1), Narok (1), Kajiado (3), Uasin Gishu (4) , Kakamega (1), Kisumu (2), Kisii (1), Mombasa (3), Siaya (1), Kiambu (1) e Nandi (1). Questo bilancio contraddice la dichiarazione di domenica sera del presidente William Ruto, il quale aveva detto che 19 persone erano morte durante le proteste, negando di avere le “mani sporche di sangue”.
William Ruto ha detto che il Paese dovrà ulteriormente indebitarsi per far funzionare l’amministrazione statale: il passo indietro sulla proposta di legge finanziaria, estremamente impopolare perché aumentando le tasse avrebbe dovuto raccogliere un flusso maggiore risorse per mettere freno all’enorme debito pubblico, interno ed estero, del Paese africano, rischia di minare la fiducia del Paese tra i grandi prestatori internazionali, aggravando la crisi del debito e le condizioni economiche dell’intero Paese.
Secondo Ruto l’abbandono del disegno di legge ha portato il Paese “indietro di due anni” e questo significa che Nairobi dovrà questuare mille miliardi di scellini di nuovi prestiti (circa 7,6 miliardi di dollari) solo “per gestire il nostro governo”, ovvero per la spesa corrente. Si tratterebbe di un aumento del 67% rispetto a quanto pianificato: Ruto ha anche detto di stare valutando la possibilità di tagliare la spesa pubblica, compresi i costi del suo ufficio, e di ridurre gli stanziamenti per la magistratura e i governi locali delle contee.
Di fatto, i membri del movimento di protesta, che non ha leader ufficiali e si organizza in gran parte attraverso i social media (soprattutto TikTok), hanno respinto gli appelli al dialogo del presidente William Ruto: infuriati per i morti, i feriti, gli arresti arbitrari e le detenzioni illegali, chiamate “sequestri” senza troppi giri di parole, oggi non chiedono più la revoca della legge finanziaria. Chiedono direttamente le dimissioni del presidente Ruto. Le proteste infatti, iniziate come uno sfogo online di rabbia per i quasi 2,7 miliardi di dollari di aumenti fiscali previsti dall’ormai tramontata legge finanziaria, si sono trasformate in un movimento nazionale e generazionale contro la corruzione e il malgoverno, n movimento dalle ragioni molto più ampie, e solide, che dei semplici aumenti delle tasse, trasformando le proteste nella crisi politica e sociale più grave dei quasi due anni di presidenza Ruto.
Ruto, che oggi la piazza chiama “Zakayo”, ovvero “Zaccheo”, come nella Bibbia si chiama il capo degli esattori delle tasse di Gerico, ha dato istruzioni al ministero del Tesoro di trovare nuovi modi per tagliare la spesa per colmare il divario di bilancio causato dal ritiro del disegno di legge.
Nessuno oggi vorrebbe vestire i panni del presidente del Kenya: politicamente sempre più debole, venerdì scorso il suo vice Gachagua, parlando a Mombasa, ha detto che “non è stato adeguatamente informato” sulle proteste e “non sapeva, non conosceva” le richieste della piazza, per colpa dei servizi di intelligence che si sono rivelati poco efficaci. In un certo senso, le parole di Gachagua danno ragione alla piazza: servizi inadeguati, impreparazione delle forze dell’ordine, tutti elementi che afferiscono a una grande questione, la corruzione endemica nei gangli del potere keniota. Da ieri molti attivisti sui social si dicono arrabbiati per quello che sembra possa diventare il nuovo scandalo al centro delle proteste, la carenza di vaccini pediatrici in tutto il Paese: secondo The Nation infatti, almeno 10 contee del Kenya devono ancora ricevere vaccini pediatrici come Bcg (tubercolosi), antipolio orale, tetano-difterite e morbillo-rosolia, che sono non disponibili da un anno. E questo, nonostante il Ministero della Salute del Kenya abbia annunciato di aver acquistato, all’inizio del mese scorso, un valore di 1,25 miliardi di scellini in vaccini di routine per l’infanzia, nello specifico 1.209.500 dosi di vaccino contro il morbillo e la rosolia, 3.032.000 dosi di vaccino antipolio orali, 1 milione di dosi di vaccino contro il tetano e la difterite e 2.120.000 dosi di vaccini anti-tubercolosi.Il governo di Nairobi ha spiegato che il ritardo nella consegna di questi vaccini è dovuto a un debito di 1,5 miliardi di scellini che il ministero ha nei confronti di Unicef e di Gavi alliance, i principali fornitori di vaccini al Paese.
Una vicenda che è, anche questa, paradigmatica dei problemi che la piazza chiede urgentemente di affrontare. Problemi molto più profondi di un “semplice”, seppur impopolare, aumento delle tasse.
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