di: Redazione | 9 Aprile 2025
“Un approccio multi-stakeholder non è solo una parola d’ordine, è una necessità” nell’ambito della lotta alla povertà energetica in Africa. Parla Benjamin Boajye, direttore esecutivo dell’Africa Centre for Energy Policy (Acep), un centro di studi e ricerche sull’energia basato ad Accra, nella capitale del Ghana: “Se vogliamo davvero aiutare l’Africa a eliminare la povertà energetica – osserva – anche la società civile e gli istituti di ricerca dovrebbero monitorare questo processo”.
Nel suo intervento durante la conferenza International network on energy transition (Inaet), in corso a Nairobi, Kenya, Boajye affronta alcuni ostacoli che affronta chi lavora insieme a istituzioni globali e in ambiti internazionali per favorire la transizione energetica del continente. Esordisce con un esempio che lo riguarda personalmente: “Non ho partecipato all’inaugurazione (di Inaet, ndr) in Italia, non per scelta, ma a causa di problemi di elaborazione dei visti. Quelli di noi che vivono nel Sud del mondo lo sanno fin troppo bene: il presupposto che chiunque viaggi in Europa sia un potenziale migrante permanente continua a perseguitare noi africani e ci rende difficile partecipare ad alcune di queste importanti conversazioni quando non si svolgono nel nostro contesto”.
Nella sua prospettiva, l’insicurezza energetica di cui soffrono ancora molti africani è una responsabilità condivisa tra il mondo della finanza, quello della politica e quello delle imprese.
Nel continente, “oltre 600 milioni di persone vivono ancora senza elettricità”, sottolinea nelle osservazioni introduttive. “Inoltre, 900 milioni di persone dipendono dalle biomasse tradizionali per cucinare, spesso a costo della salute, della produttività e dell’ambiente”.
Una realtà che Boajye ha vissuto personalmente fino ai suoi 15 anni, sebbene, osserva, “stia diventando quasi un cliché”: le soluzioni sono, è la sua opinione, nelle mani dei privati e della politica, ma anche della finanza. E spesso questi attori hanno trattato le “comunità locali, che sopportano il peso della povertà energetica e sono essenziali per l’attuazione, come attori marginali”. Se si vuole che questi piani siano credibili ed efficaci, commenta, “è necessario che siano radicati in processi inclusivi e che non siano semplicemente dei documenti progettati per attirare finanziatori”.
“Capisco che i progetti debbano essere finanziabili, ma come definiamo la bancabilità per un progetto che fornisce elettricità a persone che vivono con meno di un dollaro al giorno? – è la domanda, provocatoria, di Boajye – Se si vuole che i governi finanzino l’estensione della rete a tali comunità per rendere un progetto redditizio o finanziabile, si aumenta il rischio di insolvenza perché si sa fin dall’inizio che il governo non può pagare, né tantomeno possono pagare le persone”.
“Abbiamo bisogno di attori del settore privato che siano impegnati a lungo termine – afferma il rappresentante Acep – Che comprendano il contesto locale, che progettino soluzioni che riflettano la realtà delle famiglie africane. Ad esempio, dobbiamo chiederci: stiamo implementando tecnologie che le comunità possono permettersi? O stiamo costruendo grandi infrastrutture che nessuno può utilizzare perché il costo dell’elettricità è troppo alto?”.
Rispondere a queste domande richiede investimenti, non solo in infrastrutture ed estensione, ma anche in ricerca e sviluppo. “Dobbiamo studiare ciò che funziona tecnologicamente, socialmente ed economicamente conclude – sosteniamo istituzioni e innovatori in grado di generare dati, testare nuovi modelli e scalare soluzioni appropriate al contesto. È qui che i governi, il mondo accademico, il settore privato e la società civile devono lavorare insieme”.
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